Il contesto storico produttivo
La creazione del CESDIM – Centro studi e documentazione sull’industria nel Mezzogiorno – rinviene le sue motivazioni nella constatazione che non esiste ancora nell’Italia meridionale una struttura che raccolga, selezioni, riordini, cataloghi e renda scientificamente fruibile il pur vasto patrimonio documentario e librario esistente e riguardante la storia dell’industria nelle regioni del Sud, a partire dal secondo dopoguerra; così come non è stata ancora promossa ed avviata una sistematica ricostruzione storica dei processi di industrializzazione che hanno interessato il Meridione dalla fine del conflitto ai giorni nostri, pur essendo stati compiuti molti studi su singole fasi, imprese, settori e territori che ne sono stati coinvolti.
Esiste a Napoli, com’è noto, l’archivio storico dell’Enel e delle società elettriche che l’hanno preceduta, così come sono stati ricostruiti diversi archivi e qualche struttura museale di singole imprese tuttora presenti o già esistite in alcune regioni meridionali, in qualcuna delle quali inoltre – come ad esempio in Puglia – nel corso degli ultimi 25 anni sono state organizzate mostre documentarie su specifici settori manifatturieri, come quello dell’abbigliamento a Putignano nel Sud-Est Barese, o promossi convegni/rassegne sull’imprenditoria regionale dai primi del Novecento alle soglie degli anni Duemila, come il meeting del luglio 1999 svoltosi alla Fiera del Levante per iniziativa della cattedra di Storia dell’industria dell’Ateneo di Bari e dell’ufficio di rappresentanza dell’Enel di Puglia cui partecipò fra gli altri il prof. Valerio Castronovo.
Tuttavia manca ancora un’Istituzione che, da un lato, avvii la raccolta sistematica di documenti e materiali riguardanti l’attività nel secondo dopoguerra delle industrie localizzate nel Mezzogiorno – dalle aziende pubbliche a quelle private, dai siti facenti capo a multinazionali alle società guidate da imprenditori italiani, settentrionali e meridionali – e che, dall’altro lato, si proponga di favorire studi su quelle imprese e di connettere in rete le singole strutture archivisticbe e museali già esistenti nel Sud per rafforzarne la conoscenza da parte dell’opinione pubblica nazionale ed estera con una intensa e sistematica azione divulgativa.
Tale lacuna probabilmente è da ascriversi ad una non ancora consolidata consapevolezza collettiva del ruolo assolto nel Mezzogiorno dal settore industriale, che – pur avendo in alcuni territori radici risalenti alla prima metà dell’Ottocento in età borbonica, e pur essendosi sviluppato pur fra alterne vicende nel corso dei due secoli successivi, assumendo dimensioni oltremodo rilevanti nell’ultimo sessantennio – tarda ancora oggi ad essere riconosciuto come il comparto trainante dell’economia meridionale per molteplici ragioni sulle quali varrà la pena soffermarsi sia pure brevemente.
La persistenza del divario in termini di prodotto interno lordo, occupazione e intensità di crescita fra Nord e Sud – nonostante il sistematico intervento dello Stato nelle sue regioni dal 1950 con l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, e delle Istituzioni comunitarie dal 1989 con le loro politiche di coesione – induce spesso molti osservatori a ritenere che nelle regioni meridionali non si siano sviluppati nel corso dei decenni sistemi produttivi, e manifatturieri in particolare, capaci di contribuire significativamente alla crescita locale e a ridurre il divario con le aree più avanzate del Nord e dell’Unione Europea.
Inoltre, una parte non secondaria dell’opinione pubblica nell’Italia meridionale – in presenza soprattutto negli ultimi anni della crisi e del declino di alcune grandi imprese o di singoli settori industriali, o di particolari territori segnati da una storica tradizione manifatturiera – continua a ritenere che le vocazioni produttive ‘naturali’ del Sud siano, e debbano continuare a restare anche in futuro, l’agricoltura e le filiere ad essa connesse, l’artigianato, il turismo e il terziario avanzato.Comparti questi sicuramente rilevanti per lo sviluppo dei territori del Mezzogiorno, nessuno dei quali tuttavia è in grado di eguagliare il sistema industriale tuttora esistente nel Meridione per dimensioni di prodotto interno lordo, esportazioni, effetti indotti e rapporti di integrazione con l’economia del Nord Italia e con sistemi di produzione industriali di Paesi esteri.
Inoltre, a fronte di criticità ambientali generate dal funzionamento di grandi stabilimenti – Ilva a Taranto, impianti chimici e centrali elettriche a Brindisi, raffinerie nel Siracusano, etc. – si è diffusa l’opinione, spesso sconfinata in forme accentuate di radicalismo antindustrialista, che certi impianti dell’industria di base debbano essere dismessi anche in forme coatte, e non già invece resi ecosostenibili con l’impiego delle tecnologie e delle best practices gestionali più avanzate.
Insomma, diffuse e persistenti sottovalutazioni della consistenza quali/quantitativa dell’industria nel Meridione e crescenti manifestazioni di antindustrialismo – riferibili in realtà solo ad alcuni grandi siti produttivi localizzati in particolari aree del Mezzogiorno e al loro impatto ambientale sugli ecosistemi di pertinenza – a volte rischiano o di alimentare visioni del futuro economico locale che prescindono dal considerare l’importanza dell’industria o, peggio, di generare un rifiuto dell’industria tout-court e, di conseguenza, della necessità di ricostruirne la storia, di studiarla sotto il profilo scientifico e di divulgarla con vari strumenti ed iniziative.